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Cerchio

Aggiornamento: 29 apr




Sono seduto nella macchina nera che sotto il sole di aprile inizia ad essere difficilmente abitabile da una qualsiasi forma di vita. Ho ancora 30 minuti da aspettare prima di rientrare a scuola.

Oggi non avrei voglia. Vorrei mettere in moto, tornare a casa e aprirmi una birra per poi guardare qualcosa in tele.

Vorrei poter dormire qualche ora, ma conosco il motivo e non è perché sono stanco, non così tanto. È che oggi ho S.

S. è un bambino di 5 anni, autistico di grado elevato, non verbale, eteroaggressivo e con cui la comunicazione si restringe alla sola intonazione della voce e al contenimento fisico.

Oggi non avrei voglia. Ho già fatto una giornata con questo bimbo scatenato e difficilmente limitabile. Non ho paura, ma sono sicuramente nervoso. Non va bene. Ovviamente, come con ogni vivente con cui si instaura una relazione, il proprio stato d’animo viene percepito dall’altro che si adatta di conseguenza. Entrare in classe da un utente del genere essendo nervosi è solo la promessa di un pomeriggio estenuante.

S. è uno dei bambini più belli che abbia mai visto:  alto per la sua età con a pelle scura ereditata dalla mamma nigeriana e i capelli nero carbone finemente legati in treccine che gli solcano il capo. Ha degli occhi grandi e profondi del colore bruno delle tegole e la bocca piena, larga, ma tesa in una smorfia nervosa per la maggior parte del tempo.

La prima vota che sono venuto in questa scuola, settimana scorsa, me lo avevano presentato come il bambino più complesso dell’asilo ed effettivamente è stata una bella sfida. Sono state solo tre ore, ma estremamente intense: al mio arrivo alle 13.00 i bambini stanno andando a giocare nel salone dell’asilo dove sono accatastati diversi giochi tra scivoli e tubi di plastica, saluto le maestre e chiedo qualche  informazione :”fai bene a prepararti perché oggi non è una buona giornata. Comunque adesso hai il tempo del gioco libero per guardarlo”.

Ringrazio e mi presento a S. Mi chino all’altezza dei suoi occhi, stando attento a non entrare nell’area in cui potrebbe colpirmi con una testata. Sembra tranquillo, ma non sarebbe la prima volta che capita di vedere un educatore dover andare in pronto soccorso con un zigomo fratturato o un naso rotto.

 

“ciao S” dico “vuoi andare a giocare?”

Lui tace. Mi fissa e la maestra lo invita a salutare. Alza automaticamente una manina. S. come dicevamo è un autistico del tipo “non verbale”. Ci sono alcune parole in realtà nel suo vocabolario, ma sono principalmente ecolalie e qualche fonema semplice come “casa” o “mamma”.     S. non comunica quasi in nessun modo, non possiede nemmeno le tavole aumentative che spesso si trovano negli zainetti di bambini come lui, soprattutto all’asilo e alle elementari. Sono grossi fogli con diversi disegnini e ogni pagina riguarda un certo campo, da bagno al cibo. A ogni disegno che il bambino indica si cerca di ripetere la parola corrispondente in modo che la memorizzi e impari ad associarla al significato.

S. urla, si getta per terra, picchia e lancia oggetti. Questi sono i principali mezzi di comunicazione a cui si affida

Nel salone, per un’ora buona di gioco, S non si ferma mai, gira in cerchio attorno agli scivoli posti al centro della stanza e la sua unica preoccupazione è quella di schivare i bimbi che si trovano sulla sua traiettoria. Si direbbe che il gioco di S sia completamente “disorganizzato”: non riesce a trovare un gioco o un’attività che gli interessi e lo coinvolga, che riesca  a tenerlo fermo in un punto per più di pochi secondi. Freme e passa di gioco in gioco come un’ape che non trova il fiore corretto per raccogliere il suo polline. I movimenti saettanti mi ricordano quelli di un colibrì.

Io resto in piedi, in disparte dalle maestre, sono completamente concentrato sul cercare di osservare il più possibile il bambino. Spero di riuscire a trovare qualcosa, uno spiraglio nella sua armatura di incomunicabilità, un indizio su cosa possa piacergli fare e su cosa io possa usare per instaurare una relazione con lui. Noto la preferenza per le macchinine e per il colore verde nei giocattoli. Noto la intolleranza al contatto fisico, ma allo stesso tempo la ricerca di una compagna in particolare: una bambina bionda e con gli occhi azzurri che sembra una bambolina di porcellana. S si avvicina e le prende la mano. È un gesto che non mi aspettavo: sta correndo, saltando e sembra agitato, ma nel momento in cui deve prendere la manina di una sua compagna esegue un gesto lento e quasi galante, raccogliendo le dita della bimba per poi tirarla dolcemente dietro di sé nel suo circuito invisibile all’interno del salone.

 

Dopo che i bambini vengono richiamati per entrare in classe mi avvicino a S e tento di prenderlo per mano, inizialmente ritrae l’arto e mi fissa con sguardo interrogativo, come se gli avessi appena fatto uno sfregio così profondo da non poter essere cancellato. Lo sospingo verso la porta, indicando la maestra che chiama i suoi compagni e gli dico “andiamo in classe, classe”.

Entriamo e mentre riesco a prendere S per mano mi avvicino all’insegnante. Non ho ancora ben chiaro cosa faccia S durante le ore di scuola mentre i suoi compagni disegnano e fanno lavoretti da appendere alle pareti.

La maestra mi indica un angolo della classe in cui degli scaffali sono stati posizionati a formare una specie di area confinata, con solo un passaggio che dà sul resto della classe. S passa le sue giornate in quel “recinto”, mi spiega la maestra, in quanto altrimenti passerebbe il tempo a strattonare i compagni e a lanciare oggetti.

Non sono convinto.

Capisco la necessità di avere la calma sufficiente per svolgere e attività, ma così mi sembra davvero troppo. “possiamo stare in salone volendo?” chiedo.

“no, mi spiace, l’asilo non permette che gli educatori stiano da soli con i bambini senza insegnanti presenti”:

sospiro. Non mi piace l’idea di tenere S confinato in quello spazio, ma sembra non ci sia scelta.

Accompagno per mano il bimbo attraverso l’apertura tra gli scaffali e inizio a guardarmi in giro cercando qualcosa che possa piacergli.

È un dramma. Per l‘ora successiva S dimostra tutta la sua indignazione e frustrazione per essere stato contenuto lì dentro. A più riprese tenta di passare tra le mie gambe o approfitta di ogni volta che alzo gli occhi verso l’orologio per tentare di tornare in salone.

Io sudo. Non è difficile bloccarlo, ha solo 5 anni, ma il problema esula dalla difficoltà fisica. Non possiamo comunicare  e non posso spiegargli quanto mi spiaccia vederlo così. Lui urla, si getta a terra e sbatte i piedi, poi si alza, raccoglie un pezzo di lego e me lo lancia dritto in mezzo agli occhi. Riesco a frapporre la mano all’ultimo secondo.

Ho già provato a passare in rassegna puzzle, costruzioni e pupazzi e li ho sottoposti a suo giudizio uno per uno, fallendo miseramente. allontana i giochi con la mano, li spinge giù dal tavolino e faccio appena in tempo ad evitare il frastuono della caduta.

A salvarmi è alla fine la criniera di un minipony rosa, grosso quanto un bambolotto. Raccolgo il giocattolo e lo porgo a S. lui urla, ma non distoglie gli occhi. “guarda” gli dico intrecciando la criniera del pupazzo, indico le sue treccine “come te”.

S mi prende l’unicorno dalle mani e porta alla bocca una delle orecchie del giocattolo.

Lascio che senta di che consistenza è l’oggetto e sembra apprezzarla. È stata una giornata difficile per entrambi e si vede da come mi fissa e da come io ricambio lo sguardo.

 

Suona la sveglia impostata per evitare di addormentarmi in macchina. È ora di andare.

Mi faccio coraggio e butto giù il resto della coca cola ghiacciata che ho comprato.

Faccio i pochi metri che mi separano dal cancello della scuola chiedendomi di che umore sarà oggi S: il giovedì esce alle 11.00 per andare a fare terapia. Non mi hanno specificato cosa faccia esattamente, ma vedendo il caso direi psicomotricità.

Entro e saluto la maestra, mi dice che S è ancora a terapia, ma che sta arrivando.

Sento il campanello suonare e la collaboratrice scolastica mi fa segno di avvicinarmi: “è S.” dice “vieni a prenderlo tu?”.

Vado incontro al padre che accompagna il bimbo: è un uomo non troppo alto, ma dalla corporatura massiccia e una faccia dura incorniciata da una folta barba. Mi guarda accigliato mentre ci scambiamo un paio di parole

-        “lui è S”

-        “ si, ci siamo già visti, vero?” accenno un sorriso.

 

Prendo per mano il bambino e mentre lo accompagno verso la classe per cambiarsi le scarpe e togliere il giubbino inizio a parlargli con tono dolce. Cerco di sondare quanto abbia voglia di interagire con il mondo oggi.

 

Anche questa volta dopo pochi minuti andiamo in salone con gli altri bambini e iniziano i giochi.

Io sento un certo senso di ansia: S. è estremamente imprevedibile, nel giro di pochi secondi potrebbe decidere di colpire un altro bambino per rubare un giochino o potrebbe scattare in direzione di una porta. Non sono giudicato, se non dalle insegnanti, ma a dire il vero la cosa non mi interessa particolarmente, tuttavia sento un certo peso sulle spalle. Non voglio permettere che la giornata prenda una brutta piega, che ci sia bisogno di un litigio o di un contenimento fisico.

 

S. però è già diverso rispetto alla prima volta: volteggia e corre in circolo attorno agli scivoli, ma saltuariamente mi lancia una occhiata furtiva per vedere se lo sto osservando, mi passa vicino, studia come mi comporto e soprattutto cerca di percepire come mi sento.

Con i bambini è sempre così, sono i primi a sentire se un adulto è in agitazione o in distress e a seconda del carattere del singolo si adattano agitandosi o approfittandosene. Con un bambino quale S. il rischio è duplicato.

Mi mostro sempre sorridente e rilassato, anche se non mi perdo un movimento del bambino.

Quando saetta verso il carrello di un bidello sono pronto e fortunatamente sono più veloce di lui, intercettando il giochino che voleva fare cadere nel secchio dell’acqua sporca.

Mentre torno alla mia postazione con S. per mano capita qualcosa che ancora adesso a scriverne mi fa tremare di emozione: si avvicinano una coppia di bambine, sono compagne di classe di S. una ha delle stupende treccine bionde e l’altra una coda di cavallo a raccogliere i capelli nerissimi. Sono sorridenti e mi si avvicinano timide “possiamo tenerti la mano anche noi?” mi chiede la bimba mora, la più piccolina delle due, quella che raccoglie il coraggio per prima.

“certo” rispondo.

“e può tenercela anche S.?”

“certo” sorrido.

In pochi secondi decido e mi rivolgo a un altro paio di bimbi che giocano lì vicino: “Hey, volete venire anche voi a fare una fila gigante?” gliela butto lì.

Nel giro di meno di un minuto una ventina di bambini, quasi le due classi intere che stavano giocando nel salone, si trovano uniti uno all’altro con le manine strette e ridono mentre camminiamo tutti in fila.

È il momento giusto.

“chiudiamo la fila e facciamo un cerchio” dico deciso.

In un attimo abbiamo qualcosa che ricorda vagamente una forma tondeggiante.

S. è stupito, ma non mi tira, non si divincola, tiene la mano a me da una parte e alla piccola Nicole dall’altra e guarda i bimbi uno a uno, meravigliato.

Appena si chiude il cerchio inizio a intonare la canzone: “giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra…” i bambini immediatamente capiscono e iniziamo a girare tutti assieme in un turbine di vestitini colorati e di scarpine luminose.

“tutti giù per terra” lo cantiamo tutti assieme e S. sembra riconoscere immediatamente la cantilena, quando vede i compagni che si gettano sul pavimento anche lui si piega.

È solo il primo giro.

Continuiamo per circa venti minuti, prima più veloce, poi leggeri, saltellando, poi pesanti e lenti come orsi giganti, poi di nuovo correndo.

I giri si susseguono uno all’altro e tra risate, cadute e scarpe perdute sembra che il tempo si sia fermato per concedere a tutti noi, S. compreso, per una volta, un momento di felicità.

Le maestre osservano da lontano, si parlano e indicano, non ho idea di cosa dicano, ma non intervengono per fermarci quindi proseguiamo a roteare fino a quando non inizia a girarmi la testa, fino a quando i primi bimbi iniziano a stancarsi e si staccano, il nostro cerchio di restringe man mano, come è fisiologico che sia, ognuno a un certo punto ha altro da fare, si allontana. S. no, lui ha trovato qualcosa che gli piace, è stimolato dai suoni, dai colori e dal movimento  e non smetterebbe mai, glielo leggo in faccia. Ride quando cade e fa apposta a tirare la piccola di fianco a lui sul pavimento con sé.

Ridono tutti.

È un momento perfetto. andrebbe distillato e tenuto con cura in una bottiglia dal vetro scuro che lo protegga, aperto solo per una certa occasione e sorseggiato fresco di vita come lo è stato in questo istante.

Alla fine della ricreazione ci dirigiamo di nuovo in classe: i bambini si mettono in fila per due e io tengo la manina di S. che ancora fissa il salone con i giochi con un’espressione chiara.

Lo convinco a entrare con un bicchiere di acqua che tracanna con un solo sorso.

Il resto della giornata scorre in fretta, tra momenti di risata e altri di rimprovero, ma non mi sono mai sentito così sicuro di ciò che sto facendo, calibro ogni intervento con cura, con un obbiettivo ben chiaro. Mi piace lavorare con questo stato d’animo.

A un certo punto S. mi regala l’ultima gioia di questo giovedì di aprile. Quando è il momento di andare, la maestra lo invita a salutarmi e lui  accenna un debole “ocar…”.

Oscar.

Il mio nome.

Quando esco i pochi bambini rimasti mi salutano con un coro di vocine vivaci. “ci rivediamo presto” rispondo.

Lo spero davvero.

Che cerchio, che giro.

 

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